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Itinerari del gusto
Preparata attingendo ai ricettari
dei monsù,
maestri di rango
della grande cucina baronale. |
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Una raffinatissima
cena barocca |
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Testo di Laura Gentile |
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Palazzo
Chiaramonte di Palermo chiamato anche
Palazzo Steri, Finestra del cortile interno.
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Maria lo
sposo
- 5 Maggio 2007 |
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da Wikimedia Commons
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Immaginate una fastosa residenza Liberty, autore Ernesto Basile; interni
sfarzosi come quelli della suggestiva Sala degli specchi: rasi colore
porpora, stucchi dorati, lampadari in cristallo di Murano. Immaginate ancora
una cena al lume di preziosi candelabri Luigi XVI, una tovaglia di voile
intessuto d’oro, servizi d’argento, piatti di porcellana con lo stemma di
famiglia. L’edificio è la palermitana Villa Chiaramonte Bordonaro, la tavola
è stata imbandita da una padrona di casa, che ama riproporre i fasti della
tradizione nobiliare siciliana: la baronessa Antonella Chiaramonte. La cena
la raccontava così, una dozzina di anni fa, una delle nostre più prestigiose
riviste di alta cucina “A Tavola”. Il menù è quanto di più prelibato si
possa concepire, frutto delle ricerche e dei magici artifici culinari di
Anna Maria Dominici (figlia dell’attore Angelo Musco), che raccoglie,
conserva, perpetua le ricette della tradizione siciliana, quella popolare e
quella di palazzo.
E’ infatti nelle cucine delle grandi casate che, a partire dall’epoca
barocca, si sono elaborati i grandi piatti dell’arte culinaria siciliana,
baronale o prelatizia che fosse. Maestri di quest’arte di rango erano i
monsù, ovvero i prestigiosi cuochi di palazzo, contesi dalla nobiltà
dell’epoca, perfino, raccontano le cronache, a costo di duelli. Sono questi
grandi cuochi che consolidano fra Sette e Ottocento la grande cucina
baronale, descritta da scrittori, siciliani, come Tomasi di Lampedusa ne “Il
Gattopardo” o, di cultura siciliana, come De Roberto ne “I Vicerè”.
Ai buongustai, che ebbero la fortuna si sedere alle tavole imbandite delle
leccornie preparate dai monsù, la cucina siciliana parve un misto di
francese e di spagnolo. Un intenditore di gastronomia come Brillat Savarin,
sosteneva, senza peccare di campanilismo, che essa risente dello stile
provenzale «con l’aggiunta di un ricco manto trapunto di pietre preziose».
In realtà, con sapienti alchimie, i monsù hanno saputo fondere in uno stile
originale siciliano la tradizione isolana con gli innumerevoli influssi
stranieri di quanti governarono l’Isola o ne influenzarono i costumi. La
fama dei ricevimenti nelle piccole corti di eleganza e raffinatezza,
costituite da ogni famiglia nobiliare, raggiunse ogni angolo d’Europa. A
riprova, basta citare un brano di Patrick Brydone, uno dei numerosi
viaggiatori inglesi, acuto autore nel 1770 di un “Viaggio in Sicilia e a
Malta”.
Brydone, invitato a partecipare ad un pranzo offerto in onore del proprio
Arcivescovo da parte della nobiltà di Girgenti ( Agrigento) scrive ad un
amico: «A tavola eravamo esattamente in trenta, ma sulla mia parola non
credo che i piatti siano stati meno di un centinaio. Erano tutti guarniti
con le salse più succulente e delicate, che non ci lasciarono alcun dubbio
sulla verità del vecchio proverbio romano “Siculus coquus et sicula mensa”;
esso non è meno valido ora che a quei tempi. Non mancava nulla di ciò che
può stimolare e stuzzicare il palato, nulla di quello che si può inventare
per creare appetito dove non c’è, nonché per soddisfarlo».
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