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La prima e
l'ultima volta che vidi Giuseppe To-
masi, principe di Lampedusa, fu nell' estate del 1954,
a San Pellegrino Terme, in occasione di un conve-
gno letterario organizzato nella piccola ville d'eau
lombarda per iniziativa di Giuseppe Ravegnani e
del locale Municipio, Scopo del convegno, confor-
tato dall'intervento della Televisione e di un mani-
polo di fotoreporters, era questo: una decina tra i
piu illustri scrittori italiani contemporanei avrebbero
presentato al pubblico (sparutissimo) dei villeggianti,
un numero corrispondente di " speranze" delle ulti-
me e penultime leve letterarie.
Non è il luogo, qui, di raccontare per filo e per
segno come il convegno si svolse, né di fare un bi-
lancio sia pure tardivo dei suoi lavori. Esso comun-
que non fu inutile, Fu a San Pellegrino, infatti, che
Eugenio Montale ci dette la prima notizia dell'esi-
stenza di un nuovo, autentico poeta: il barone Lucio
Piccolo, di Capo d'Orlando (Messina). Le poesie di
Piccolo, precedute dal medesimo scritto che Mon-
tale lesse allora davanti a noi, figurano adesso nella
collana mondadoriana dello Specchio, So di non dir
nulla di straordinario affermando che esse rappre-
sentano quanto di meglio è uscito in questi ultimi
anni in Italia nel campo della lirica pura. Che più?
Lucio Piccolo nsultò la vera rivelazione del con-
vegno. Più che cinquantenne, distratto e timidissimo
come un ragazzo, sorprese e incantò tutti, anziani e
giovani, la sua gentilezza, il suo tratto da gran si-
gnore, la sua mancanza assoluta di istrionismo, per-
fino l'eleganza un po' démodée dei suoi siciliani abiti
scuri. Dalla Sicilia era venuto in treno: facendosi
accompagnare da un cugino più anziano e da un
servitore. Ce n'era abbastanza, se ne convenga, per
eccitare una tribù di letterati in semi-vacanza! Sta
il fatto che su Piccolo, sul cugino e sul servitore (un
bizzarro trio che non si scindeva mai: il servitore,
abbronzato e, robusto come un mazziere, non per-
deva d'occhio gli altri due un momento solo.,.), du-
rante il giorno e mezzo che rimanemmo a S. Pelle-
grino conversero la cuniosità, lo stupore e la simpatia
generali.
Fu Lucio Piccolo stesso a dichiarare nome e titolo
del cugino: Giuseppe Tomasi, principe di Lampe-
dusa. Era un signore alto, corpulento, taciturno; pal-
lido, in volto, del pallore grigiastro dei meridionali
di pelle scura. Dal pastrano accuratamente abbotto-
nato, dalla tesa del cappello calata sugli occhi, dalla
mazza nodosa a cui, camminando, si appoggiava pe-
santemente, uno lo avrebbe preso a prima vista, che
so?, per un generale a riposo o qualcosa di simile.
Era pia anziano di Lucio Piccolo, come ho detto:
ormai verso i sessanta. Passeggiava a fianco del cu-
gino lungo i vialetti che circondano il Kursaal, o as-
sisteva, nella sala interna del Kursaal, ai lavori del
convegno, silenzioso sempre, sempre con la mede-
sima piega amara delle labbra. Quando gli fui pre-
sentato, si limitò a inchinarsi brevemente senza dire
una parola.
Passarono quasi cinque anni senza che sapessi più
nulla del principe di Lampedusa. Fintantoché la pri-
mavera scorsa, avendo sentito dire che stavo prepa-
rando una collana di libri, una cara amica napole-
tana, che vive a Roma, non ebbe la buona idea di
telefonarmi. Aveva qualcosa per me -mi disse -:
un romanzo. Glielo aveva mandato qualche tempo
prima, dalla Sicilia, un suo conoscente. L'aveva letto,
le era sembrato molto interessante,. e dato, appunto,
che aveva udito della mia nuova attività editoriale,
sarebbe stata ben lieta di metterlo a mia disposizione.
"Di chi è?" domandai. "Mah, non so. Credo che
non sia difficile venire a saperlo, però.
"
Di lì a poco ebbi tra mano il dattiloscritto. Esso
non recava alcuna firma. Di una cosa fui subito cer-
to, comunque, non appena ebbi gustato il delizioso
fraseggio dell'incipit: che si trattasse di un lavoro
serio, opera di un vero scrittore. Tanto bastava, La
lettura completa del romanzo, poi, che esaurii in po-
chissimo tempo, non fece che confermarmi nella
prima impressione.
Telefonai subito a Palermo. Seppi così che autore
del romanzo era Giuseppe Tomasi, duca di Palma
e principe di Lampedusa: sì, proprio il cugino del
poeta Lucio Piccolo di Capo d'Orlando -mi fu
confermato. Il quale principe, purtroppo, ammala-
tosi gravemente un anno avanti, nella primavera del
'57, era morto a Roma, .dove era andato per un estre-
mo tentativo di cura, il luglio dello stesso anno.
La vita è musicale, si sa. Sui suoi temi fondamen-
tali, sulle sue "frasi" piu intense, non ama indugia-
re. Si limita a darteli di furto, ad
accennarteli ap-
pena... Andai dunque a Palermo, nella tarda prima-
vera di quest'anno. E fu un viaggio assai proficuo,
nonostante tutto: perché il manoscritto originale
del
romanzo -un grosso quaderno a righe, riempito
quasi per intero dalla piccola
calligrafia dell'autore -
si rivelò, all'esame, assai più' completo e corretto della
copia dattilografica che già conoscevo.
A Palermo ebbi il piacere di fare la conoscenza
della consorte dello scrittore, baronessa Alessandra
Wolff-Stomersee, baltica di nascita ma di madre
ita-
liana, autorevole studiosa di problemi di psicologia
(è vice-presidente della Società Psicoanalitica Italia-
na). Da essa dovevo avere non poche notizie su Giu-
seppe Tomasi di Lampedusa. La più sorprendente
delle quali fu per me la seguente: che il Gattopardo
fosse stato scritto, dal principio alla fine, fra il '55 e
il '56. In pratica era accaduto pressappoco questo, in-
somma: reduce da S. Pellegrino, il povero principe
si era messo al lavoro, e in pochi mesi, un capitolo
dopo l'altro, aveva composto il libro. Aveva avuto
appena il tempo di ricopiarlo:
poi, subito, si erano
manifestati i primi segni della
malattia che in poche
settimane l' avrebbe ucciso.
" Venticinque anni fa mi
annunziò che intendeva
fare un romanzo storico,
ambientato in Sicilia all' epoca dello sbarco di
Gari-
baldi a Marsala, e imperniato sulla figura del suo
bisnonno paterno, Giulio di Lampedusa, astrono-
mo," mi disse tra l'altro la signora.
" Ci pensava con-
tinuamente, ma non si decideva mai a cominciare,"
Alla fine, scritte le prime pagine, aveva proceduto di
gran lena. Andava a lavorare al Circolo Bellini.
Usci-
va di casa la mattina presto, e non rientrava che ver-
so le tre.
Recuperai anche, a Palermo, oltre al manoscritto
del romanzo, molte altre carte inedite: quattro
rac-
conti, vari saggi sulla narrativa francese dell'Otto- :;~
cento (Stendhal, Mérimée, Flaubert).
Dall' esame di tutto questo materiale (a cui si ag- .
giungerà, è sperabile, l'epistolario) , ci si potrà fare
a suo tempo un'idea molto precisa della personalità
intellettuale e morale dello scrittore. Il quale fu uo-
mo coltissimo, ovviamente. Conosceva a fondo, ne-
gli originali, le principali letterature, e divise la pro-
pria vita fra l'odiosamata Sicilia e lunghi viaggi
all'estero. (Insegnò, anche: ma privatamente, racco-
gliendo attorno a sé, negli ultimi anni, un piccolo
stuolo di giovani ingegni.)
Ciò che tuttavia a me preme, ora, è di richiamare
l'attenzione soprattutto sull' unico libro, compiuto in
ogni sua parte, che egli ci ha lasciato. Ampiezza di
visione storica unita a un' acutissima percezione della
realtà sociale e politica dell'Italia contemporanea,
dell'Italia di adesso; delizioso senso dell'umorismo;
autentica forza lirica; perfetta sempre, a tratti incan-
tevole, realizzazione espressiva: tutto ciò, a mio av-
viso, fa di questo romanzo un'opera d'eccezione. Una
di quelle opere, appunto, a cui si lavora o ci si pre-
para per tutta una vita.
Come nei Viceré di Federico De Roberto, è di sce-
na, anche qui, una famiglia dell'alta aristocrazia iso-
lana, colta nel momento rivelatore del trapasso di
regime, mentre già incalzano i tempi nuovi. Ma se
la materia del Gattopardo ricorda molto da vicino
quella del gran libro del De Roberto, è lo scrittore,
il modo come questi si pone di fronte alle cose, a
differire sostanzialmente. Nessun residuo di pedan-
teria documentaria, di oggettivismo naturalistico, in
Tomasi di Lampedusa. Accentrato quasi
interamente
attorno a un solo personaggio, il principe Fabrizio
Salina, in cui è da vedere un ritratto del bisnonno
paterno, certo, ma forse ancor più un autoritratto,
lirico e mitico insieme, il suo romanzo concede assai
poco, e questo poco non senza sorriso, alla trama,
all'intreccio, al romanzesco, cosi cari a tutta la nar-
rativa europea dell'Ottocento. Insomma, meglio che
a De Roberto, Tomasi di Lampedusa bisogna acco-
starlo al contemporaneo Brancati. E non solo a Bran-
cati; ma anche, probabilmente, ad alcuni grandi
scrittori inglesi di questa prima metà del secolo
(Forster, ad esempio), che certo ebbe famigliari: al
pari di lui poeti lirici e saggisti piuttosto-che narra-
tori "di razza."
E con questo, credo d'aver detto l'indispensabile, .
Più tardi provvederà certamente la
critica a collocare
il nostro scrittore al suo giusto posto, nella storia della
letteratura italiana del Novecento. Quanto a
me, ri-
peto, prefeisco per ora non aggiungere altro, Sono
persuaso che la poesia, quando c'è -e qui non mi
par dubbio che ci sia -meriti di essere considerata
almeno per un momento per quello che è, per lo stra-
no gioco di cui consiste, per il primordiale dono di
illusione, di verità e dì musìca che
vuol darci an-
zitutto,
Si legga dunque da capo a fondo il romanzo, con
l'abbandono che pretende per sé la vera poesia. Frat-
tanto, dal canto suo, il più vasto pubblico dei lettori
avrà avuto il tempo di innamorarsi ingenuamente,
proprio come usava una volta, di quei personaggi
della favola dentro i quali l'autore, anch'egli
come
usavano una volta i poeti, se ne sta chiuso chiuso.
Del principe- don Fabrizio Salina, voglio dìre, dì
Tancredi Falconeri, di Angelica Sedàra, di Concetta,
e di tutti glì altri: il povero cane Bendicò compreso.
Giorgio Bassani
Settembre 1958
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