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    Il Gattopardo
   
di Giuseppe Tomasi di Lampedusa 
   Siamo in Sicilia, all'epoca del
   tramonto borbonico, ma l'autore ci
   offre è una immagine viva della
   regione, ampiamente contemporanea.
 

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Il gattopardo |  ed. del 1958 - Brano iniziale del romanzo


 

  Pagina 2


Preceduto da un Bendicò eccitatissimo discese la
breve scala che conduceva al giardino. Racchiuso co-
me era questo fra tre mura e un lato della villa,
la seclusione gli conferiva un aspetto cimiteriale ac-
centuato dai monticciuoli paralleli delimitanti i ca-
naletti d'irrigazione e che sembravano tumuli di
smilzi giganti. Sull'argilla rossiccia le piante cre-
scevano in fitto disordine: i fiori spuntavano dove
Dio voleva e le siepi di mortella sembravano poste
li più per impedire che per dirigere i passi. Nel fon-
do una Flora chiazzata di lichene giallo-nero esibi-
va rassegnata i suoi vezzi più che secolari; dai lati
due panche sostenevano cuscini trapunti ravvoltola-
ti, anch'essi di marmo grigio; ed in un angolo l'oro
di un albero di gaggia intrometteva la propria alle-
gria intempestiva. Da ogni zolla emanava la sensa-
zione di un desiderio di bellezza presto fiaccato dal-
la pigrizia.
Ma il giardino, costretto e macerato fra quelle bar-
riere, esalava profumi untuosi, carnali e lievemente
putridi, come i liquami aromatici distillati dalle re-
liquie di certe sante; i garofanini sovrapponevano il
loro odore pepato a quello protocollare delle rose ed
a quello oleoso delle magnolie che si appesantivano
negli angoli; e sotto sotto si avvertiva anche il pro-
fumo della menta misto a quello infantile della gag-
gia ed a quello confetturiero della mortella; e da
oltre il muro l'agrumeto faceva straripare il sentore
di alcova delle prime zagare.
  Era un giardino per ciechi: la vista costantemen-
te era offesa: ma l'odorato poteva trarre da esso un
piacere forte, benché non delicato. Le rose Paul Ney-
ron, le cui piantine aveva egli stesso acquistato a Pa-
rigi, erano degenerate; eccitate prima e rinfrollite
poi dai succhi vigorosi e indolenti della terra sici-
liana, arse dai lugli apocalittici, si erano mutate in
una sorta di cavoli color carne, osceni, ma che di-
stillavano un aroma denso quasi turpe, che nessun
allevatore francese avrebbe osato sperare. Il Principe
se ne pose una sotto il naso e gli sembrò di odorare
la coscia di una ballerina dell 'Opera. Bendicò, cui
venne offerta pure, si ritrasse nauseato e si affrettò
a cercare sensazioni più salubri fra il concime e cer-
te lucertoluzze morte.
Per il Principe, però, il giardino profumato fu
causa di cupe associazioni di idee. " Adesso qui c'è
buon odore; ma un mese fa..."
Ricordava il ribrezzo che le zaffate dolciastre ave-
vano diffuso in tutta la villa prima che ne venisse
rimossa la causa: il cadavere di un giovane soldato
del quinto Battaglione Cacciatori che, ferito nella
zuffa di S. Lorenzo contro le squadre dei ribelli, se
ne era venuto a morire, solo, sotto un albero di limo-
ne. Lo avevano trovato bocconi nel fitto trifoglio, il
viso affondato nel sangue e nel vomito, le unghie
confitte nella terra, coperto dai formiconi; e di sotto
le bandoliere gl'intestini violacei avevano formato
pozzanghera. Era stato Russo, il soprastante, a rin-
venire quella cosa spezzata, a rivoltarla, a coprirne
il volto col suo fazzolettone rosso, a ricacciare con
un rametto le viscere dentro lo squarcio del ventre,
a coprire poi la ferita con le falde blu del cappotto-
ne: sputando continuamente, per lo schifo, non pro-
prio addosso ma assai vicino alla salma. Il tutto con
preoccupante perizia. "Il fetore di queste carogne
non cessa  neppure quando sono morte," diceva. Ed
era stato tutto quanto avesse commemorato quella
morte derelitta.
Quando i commilitoni imbambolati lo ebbero poi
portato via (e, , lo avevano trascinato per le spalle
sino alla carretta cosicchè la stoppa del pupazzo era
venuta fuori di nuovo), un De Profundis per l'ani-
ma dello sconosciuto venne aggiunto al Rosario se-
rale; e non se ne parlò più, la coscienza delle donne
di casa essendosi  rivelata soddisfatta.
Il Principe andò a grattar via un po' di lichene
dai piedi della Flora e si mise a passeggiare su e giù:
il sole basso proiettava immane l 'ombra sua sulle
aiuole funeree.
Del morto non si era parlato più, infatti; ed alla
fin dei conti, i soldati sono soldati appunto per mo-
rire in difesa del Re. L'immagine di quel corpo sbu-
dellato riappariva però spesso nei ricordi, come per
chiedere che gli si desse pace nel solo modo possibile
al Principe: superando e giustificando il suo estre-
mo patire in una necessità generale. Ed altri spet-
tri gli stavano intorno, ancor meno attraenti di esso.
Perché morire per qualcheduno o per qualche co-
sa, va bene, è nell'ordine; occorre però sapere o,
per lo meno, esser certi che qualcuno sappia per chi
o per che si è morti; questo chiedeva quella faccia
deturpata; e appunto qui cominciava la nebbia.
"Ma è morto per il Re, caro Fabrizio, è chiaro,"
gli avrebbe risposto suo cognato Màlvica, se il Prin-
cipe lo avesse interrogato, quel Màlvica scelto sem-
pre come portavoce della folla degli amici. "Per il
Re, che rappresenta l'ordine, la continuità, la decen-
za, il diritto, l'onore; per il Re che solo difende la
Chiesa, che solo impedisce il disfacimento della pro-
prietà, mèta ultima della setta." Parole bellissime,
queste, che indicavano tutto quanto era caro al Prin-
cipe sino alle radici del cuore. Qualcosa però stri-
deva ancora. Il Re, va bene. Lo conosceva bene, il
Re, almeno quello che era morto da poco; l'attuale
non era che un seminarista vestito da generale. E
davvero non valeva molto. "Ma questo non è ragio-
nare, Fabrizio," ribatteva Màlvica, "un singolo so-
vrano può non essere all'altezza, ma l'idea monar-
chica rimane lo stesso quella che è."
Vero anche questo; ma i Re che incarnano una
idea non devono, non possono scendere, per gene-
razioni, al disotto di un certo livello; se no, caro co-
gnato, anche l'idea ci patisce.
Seduto su un banco se ne stava inerte a con-
templare le devastazioni che Bendicò operava nel-
le aiuole; ogni tanto il cane rivolgeva a lui gli occhi
innocenti come per chiedergli una lode per il lavoro
compiuto; quattordici garofani spezzati, mezza siepe
divelta, una canaletta ostruita. Sembrava davvero un
cristiano. "Buono, Bendicò, vieni qui." E la bestia
accorreva, gli posava le froge terrose sulla mano, an-
siosa di mostrargli che la balorda interruzione del
bel lavoro compiuto gli veniva perdonata.
 

 

 
 
         

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