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Maggio 1860
"Nunc et in hora mortis nostrae. Amen."
La recita quotidiana del Rosario era finita. Duran-
te mezz'ora la voce pacata del Principe aveva ricor-
dato i Misteri Gloriosi e Dolorosi; durante mezz'ora
altre voci, frammiste, avevano tessuto un brusio on-
deggiante sul quale si erano distaccati i fiori d'oro
di parole inconsuete: amore, verginità, morte; e du-
rante quel brusio il salone rococò sembrava aver mu- ,;
tato aspetto; financo i pappagalli che spiegavano le
ali iridate sulla seta del parato erano apparsi intimi-
diti; perfino la Maddalena, fra le due finestre, era
sembrata una penitente anziché una bella biondona,
svagata in chissà quali sogni, come la si vedeva
sempre.
Adesso, taciutasi la voce, tutto rientrava nell'ordi-
ne, nel disordine, consueto. Dalla porta attraverso la
quale erano usciti i servi, l'alano Bendicò, rattristato
dalla propria esclusione, entrò e scodinzolò. Le don-
ne si alzavano lentamente, e l'oscillante regredire
delle loro sottane lasciava a poco a poco scoperte le
nudità mitologiche che si disegnavano sul fondo lat-
teo delle mattonelle. Rimase coperta soltanto un' An-
dromeda cui la tonaca di padre Pirrone, attardato
in sue orazioni supplementari, impedì per un bel
po' di riveder l'argenteo Perseo che sorvolando i
flutti si affrettava al soccorso ed al bacio.
Nell'affresco del soffitto si risvegliarono le divini-
tà. Le schiere di Tritoni e di Driadi, che dai monti
e dai mari fra nuvole lampone e ciclamino si pre-
cipitavano verso una trasfigurata Conca d'Oro per
esaltare la gloria di casa Salina, apparvero di subito
tanto colme di esultanza da trascurare le più sem-
plici regole prospettiche; e gli Dei maggiori, i Prin-
cipi fra gli Dei, Giove folgorante, Marte accigliato,
Venere languida, che avevano preceduto le turbe dei
minori, sorreggevano di buon grado lo scudo az-
zurro col Gattopardo. Essi sapevano che per ventitré
ore e mezza, adesso, avrebbero ripreso la signoria
della villa. Sulle pareti le bertucce ripresero a far
sberleffi ai cacatoés.
Al di sotto di quell'Olimpo palermitano anche i
mortali di casa Salina discendevano in fretta giù
dalle sfere mistiche. Le ragazze raggiustavano le
pieghe delle vesti, scambiavano occhiate azzurrine
e parole in gergo di educandato; da più di un me-
se, dal giorno dei "moti" del Quattro Aprile, le
avevano per prudenza fatte rientrare dal convento,
e rimpiangevano i dormitori a baldacchino e l'inti-
mità collettiva del Salvatore. I ragazzini si accapi-
gliavano di già per il possesso di una immagine di
S. Francesco di Paola; il primogenito, l'erede, il du-
ca Paolo, aveva già voglia di fumare e, timoroso di
farlo in presenza dei genitori, andava palpando
attraverso la tasca la paglia intrecciata del portasi-
gari. Nel volto emaciato si affacciava una malinconia
metafisica: la giornata era stata cattiva, Guiscardo,.
il sauro irlandese, gli era sembrato giù di vena, e
Fanny non aveva trovato il modo (o la voglia?) di
fargli pervenire il solito bigliettino color di mam-
mola. A che fare, allora, si era incarnato il Reden-
tore?
La prepotenza ansiosa della Principessa fece cadere
seccamente il rosario nella borsa trapunta di jais,
mentre gli occhi belli e maniaci sogguardavano i
figli servi e il marito tiranno verso il quale il corpo
minuscolo si protendeva in una vana ansia di domi-
nio amoroso.
Lui, il Principe, intanto si alzava:: l'urto del suo
peso da gigante faceva tremare l'impiantito, e nei
suoi occhi chiarissimi si riflesse, un attimo, l'orgo-
glio di questa effimera conferma del proprio signo-
reggiare su uomini e fabbricati.
Adesso posava lo smisurato Messale rosso sulla
seggiola che gli era stata dinanzi durante la recita
del Rosario, riponeva il fazzoletto sul quale aveva
poggiato il ginocchio, e un po' di malumore intorbi-
dò il suo sguardo quando rivide la macchiolina di
caffè che fin dal mattino aveva ardito interrompere
la vasta bianchezza del panciotto.
Non che fosse grasso: era soltanto immenso e for-
tissimo; la sua testa sfiorava (nelle case abitate dai
comuni mortali) il rosone inferiore dei lampadari;
le sue dita sapevano accartocciare come carta velina
le monete da un ducato; e fra villa Salina e la bot-
tega di un orefice era un frequente andirivieni per
la riparazione di forchette e cucchiai che la sua
contenuta ira, a tavola, gli faceva spesso piegare
in cerchio. Quelle dita, d'altronde, sapevano anche
essere di tocco delicatissimo nel carezzare e ma-
neggiare, e di ciò si ricordava a proprio danno Ma-
ria Stella, la moglie; e le viti, le ghiere, i bottoni,
smerigliati dei telescopi, cannocchiali, e " ricercatori
di comete" che lassù, in cima alla villa, affollavano
il suo osservatorio privato, si mantenevano intatti
sotto lo sfioramento leggero. I raggi del sole calan-
te ma ancora alto di quel pomeriggio di maggio ac-
cendevano il colorito roseo, il pelame color di mie-
le del Principe; denunziavano essi l'origine tedesca
di sua madre, di quella principessa Carolina la cui
alterigia aveva congelato, trent'anni prima, la Corte
sciattona delle Due Sicilie. Ma nel sangue di lui fer-
mentavano altre essenze germaniche ben più inco-
mode per quell'aristocratico siciliano, nell'anno 1860,
di quanto potessero essere attraenti la pelle bianchis-
sima ed i capelli biondi nell'ambiente di olivastri e di
corvini: un temperamento autoritario, una certa rigi-
dità morale, una propensione alle idee astratte che
nell' habitat morale molliccio della società palermita-
na si erano mutati rispettivamente in prepotenza ca-
pricciosa, perpetui scrupoli morali e disprezzo per
i suoi parenti e amici, che gli sembrava andassero
alla deriva nei meandri del lento fiume pragmati-
stico siciliano.
Primo (ed ultimo) di un casato che per secoli non
aveva mai saputo fare neppure l'addizione delle
proprie spese e la sottrazione dei propri debiti, pos-
sedeva forti e reali inclinazioni alle matematiche;
aveva applicato queste all'astronomia e ne aveva
tratto sufficienti riconoscimenti pubblici e gustosis-
sime gioie private. Basti dire che in lui orgoglio c
analisi matematica si erano a tal punto associati da
dargli l'illusione che gli astri obbedissero ai suoi cal-
coli (come, di fatto, sembravano fare) e che i due
pianetini che aveva scoperto (Salina e Svelto li ave-
va chiamati, come il suo feudo e un suo bracco indi-
menticato) propagassero la fama della sua casa nelle
sterili plaghe fra Marte e Giove e che quindi gli
affreschi della villa fossero stati più una profezia che
una adulazione.
Sollecitato da una parte
dall'orgoglio e dall'intel-
lettualismo materno, dall'altra dalla sensualità e fa-
ciloneria del padre, il povero principe Fabrizio vive-
va in perpetuo scontento pur sotto il cipiglio zeu-
siano, e stava a contemplare la rovina del proprio
ceto e del proprio patrimonio senza avere nessuna
attività ed ancora minor voglia di porvi riparo.
Quella mezz 'ora fra il Rosario e la cena era uno
dei momenti meno irritanti della giornata, ed egli
ne pregustava ore prima la pur dubbia calma.
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