Nessuna delle tante chiese, grandi o piccole, che, annesse a fondazioni monastiche o isolate nei centri via via restituiti alla fede cristiana, sorsero nel periodo della conquista o durante il governo del Conte Ruggero, si ebbe, almeno per quel che sappiamo, una decorazione musiva; al più nei centri ove le memorie degli insediamenti avevano attraversato gli stessi secoli della dominazione musulmana, pittori verosimilmente legati, come dimostrano iconografia e tecnica, alla tradizione del monachesimo siriaco e microasiatico, e informati di qualche novità dal giro agevole dei codici miniati, avevano impiegato le loro deboli forze ed apparare con immagini rigide di linee ma spesso vivaci di colori, e illeggiadrite da ornamenti minuti, i muri presbiteriali o le absidi delle piccole chiese annesse ai loro modesti cenobi, o le piccole, e ancor più modeste, cappelle votive, isolate in romite campagne.
Una pratica dunque in ritardo e comunque inadeguata a saldare il vecchio con il nuovo, tanto più che il gusto della corte – ora che il fragore delle armi s’era spento nel tripudio della vittoria, e la monarchia, cresciuta di potenza, s’era affermata nonostante la resistenza spesso collegata dei due imperi d’Oriente e d’Occidente e dello stesso Papato – tirava al grandioso e al fastoso, e mirava a farsi cosmopolita, e ad allargare, in una col respiro dell’azione politica, quello stesso della cultura.
È infatti col secondo Ruggero, col primo re, che le chiese palermitane incominciano a rivestirsi di mosaici, e non esistendo in situ – diversamente di quanto avviene di constatare a Venezia, ove i più antichi mosaici si ricollegano ancora alla tradizione esarcale – una tradizione precostituita, si fece ricorso, come del resto per tante altre manifestazioni – tra i quali la stessa tessitura d’arte dell’officina palatina, che non ha affatto, com’è stato ormai chiarito, origini arabe – al centro in quel momento di più risonante prestigio, e con il quale intercorrevano scambievoli rapporti: cioè i mosaicisti di Costantinopoli.