Seguendo una specie di darwinismo sociale,
Verga descrive la realtà sociale dell’epoca delle classi sociali più
svantaggiate, non per denunciare (come faceva il suo contemporaneo
Emile Zola), ma per prendere atto della presenza immodificabile del
Male nel mondo. Secondo quasi una
legge della selezione naturale animale, anche per l’uomo esiste la legge
del più forte (Hobbes: "homo homini lupus").
Scrivendo impersonalmente dei vinti, la sua diventa un’osservazione
lucida di un vero crudele ed immodificabile. E’ il pessimismo
verghiano: non ci sono alternative possibili, come sentenzierebbero
i latini, dura lex sed lex.
Questo pessimismo spinge
Verga alla critica della società borghese, ma anche
alla sfiducia verso ogni tentativo di lotta o progresso. Neppure la
creazione di uno Stato unitario e legiferante e le nuove teorie
socialiste, portano al superamento del pessimismo. Per Verga la
lotta quotidiana vige in tutta la sua crudeltà, soprattutto tra le
classi sociali più povere La rassegnazione cosciente delle classi
popolari, così bene descritte, che accettano il proprio destino, e
che per questo posseggono saggezza e moralità, scaturisce da quella
mentalità, così siciliana, profondamente tradizionalista e fatalista
sulle cose della vita.
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