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Premessa
Il mondo dei Nebrodi
Cenni storici
La scultura dei Nebrodi
L'architettura medievale
L'architettura rinascimentale
  Il territorio: geologia
Il territorio: morfologia
Il territorio: idrografia
Il territorio: vegetazione e flora
Il territorio: fauna

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 Conosciamo i Nebrodi
   IL TERRITORIO DEI NEBRODI:
   L'AMBIENTE NATURALISTICO, ANTROPICO,
   STORICO E   CULTURALE
 

Per saperne di più  

 
   
 
  Il mondo dei Nebrodi    
     
     

Testo di Francesco Cimino


 

 
I NEBRODI PER IMMAGINI
 
Foto di Chiara Samugheo

 





 
Chi per la prima volta entra nel mondo dei Nebrodi ha subito la sensazione d’immergersi in una dimensione particolare, con scenari inattesi e animati da montagne e fiumare, da laghi e prati, da immense distese boschive e orizzonti sconfinati e come sospesi, al cospetto dell’Etna, tra cielo e mare. L’atmosfera è quella di una regione di grandi spazi.

Nella realtà, invece, è un lembo di terra - quasi un’ideale continuazione della catena appenninica - incastonata tra i Peloritani, le Madonie, 220.000 ettari con 170.000 abitanti, 59 comuni, quasi tutti arroccati sui monti, per cui, a notte, come suggerisce Elio Vittorini, anziché di presepi, danno l’immagine di grappoli d’uva maturi.

Nebrodi viene dal greco e risale ai primi insediamenti esplorativi a Capo Tindari. La cultura greca sviluppò rapidamente la sua influenza quasi esclusivamente sulle coste, di qua e al di là dei Nebrodi, lungo una rotta che puntava a occidente, verso il tramonto del sole concepito quasi come confine del mondo abitato. Lasciò tracce profonde e chiare, tanto che Goethe di ritorno dall’isola, poté scrivere che, per lui, finalmente, Odissea è davvero parola viva, resa significante dai colori incontaminati della solarità e del mito.

Per quanto avessero scelto per i loro insediamenti le terre morfologicamente somiglianti a quelle della madre patria, i greci subirono il fascino delle aree interne, pur considerandole - come ricorda Michele Mancuso - riserve strategiche di materie prime per la flotta e per le esigenze urbane e militari. Non a caso, con Nebros indicavano l’interno e non, per esempio, Capo Tindari (o Tusa), dov’erano forti e potenti agglomerati i cui resti - dopo decenni d’abbandono -stanno per tornare alla luce grazie a una sistematica ed importante campagna di scavi i cui risultati potranno consentire un ‘medita e fondamentale chiave di lettura della colonizzazione ellenica, della sua influenza sul grezzo mondo punico-siculo. E dalla quale, singolarmente, a restarne immune fu proprio la gente dei monti e delle vallate che dal Tirreno si dispiegano sino al massiccio etneo.

La gente dei Nebrodi, tuttavia, fece suo il toponimo, tramandandolo nei secoli con orgogliosa tenacia, indifferente a tutte le dispute etimologiche. Per alcuni il toponimo discende da Nebros; per altri, invece, da Nebrod. Nel primo caso si riferisce ai cervi che popolavano la regione. Nebros, in greco, significa infatti cerbiatto, l’animale in cui fu trasformato Atteone per aver spiato Artemide al bagno.

Nel secondo caso, invece, stando a storici di scuola tedesca, deriva da Nembrod (che in greco suona Nebrod). E il nome del grande cacciatore di un antico mito semitico, a noi più noto come Orione. Artemide non lo volle rivale di caccia nella regione che considerava suo esclusivo paradiso terrestre e lo mutò nella costellazione che ancora porta il suo nome.

L’ipotesi di Orione è suggestiva, ma alla gente sembra piacere più l’altra, quella del cerbiatto (e non a caso, dopo secoli, i cervi sono stati reintrodotti, ancora rari e difficili a vedersi). Persiste (quasi a livello inconscio) un misterioso, remoto legame con la cultura ellenica. Roger Peyrefitte non se ne stupisce. Nei suoi appunti di viaggio sostiene infatti che i greci hanno lasciato molto più d’un nome. Aggiunge: li riconosciamo sia nei magnifici ruderi delle loro mura e dei loro monumenti e sia nelfatto di essersi scelto per dimora un luogo come Tindari: non ce n ‘è di più belli, se si eccettuano Erice e Taormina, e regna sul mare Tirreno. La suggestione è forte e molti, nel tempo, l’hanno percepita, ma nessuno con l’intensità di Salvatore Quasimodo, che a Tindari - e quindi alla radice del vincolo dei Nebrodi con la cultura greca - ha dedicato alcuni tra i versi suoi più belli:

Tindari mite ti so
fra larghi colli pensili sull’acque
dell’isole dolci del dio
oggi m ‘assali

e ti chini in cuore.

Ma è soprattutto in Ed è subito sera, scritto all’ombra di Nostra Donna del Tindari, che quell’impalpabile legame si fa esplicito e vivo come in un frammento della lirica greca:

Ognuno sta solo sul cuore della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.

 
 

     

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