Nel 1901,
con il libro sull'Industria
artistica tardoromana,
Alois
Riegl, mise l’accento sul contesto culturale in cui si era
realizzata l’opera d’arte, superando, quindi, tutte le astratte
“bellezze ideali”. Era nata la storicizzazione dell’arte. Da qui lo
studio di tutte le civiltà e culture. Da qui l’archeologia che
conosciamo. Gli studiosi, infatti, si erano già chiesti come
ritrovare e catalogare i reperti preistorici, appartenenti, cioè, a
prima della nascita della scrittura. Non ci si poteva avvalersi di
fonti scritte per individuare i siti archeologici e poi inquadrarli
storicamente, l’unica possibilità era una classificazione culturale.
Questo voleva dire uscire dall’orientamento storico-artistico
per approdare ad uno maggiormente storico-antropologico,
Tecnicamente, William
Flinders Petrie, egittologo, agli inizi del nuovo secolo, sviluppò
il sistema di seriazione (la distribuzione statistica), che, insieme
alla stratigrafia, innovarono l’archeologia di quei tempi, almeno
fino all’introduzione della datazione tramite gli isotopi
radioattivi. Nuovi metodi di scavo vennero introdotti. Ad
esempio, lo scavo per quadrati (tra il 1920-1950), o lo scavo su
grandi aree (fine anni ’70). Nel dopoguerra la ricostruzione portò
alla definizione dell’archeologia urbana, mentre a livello di
industrie storiche, nacque l’archeologia industriale. Ma il vero
passo in avanti, registrato nel ‘900, fu la creazione di cattedre
universitarie di archeologia, sia in Europa che in America,
superando, quindi, definitivamente, le improvvisazioni amatoriali.
L’intersecazione con l'antropologia culturale, però, ha prodotto un
grande dibattito, soprattutto a partire dagli anni sessanta, con
esiti a volte dubbi. Sono nati problemi interpretativi e
metodologici, con una grande esplosione creativa di archeologie di
tutti i tipi. Questo collegamento, inoltre, tra l'archeologia
e l'antropologia, ha prodotto,
negli Stati Uniti, la
cosiddetta archeologia processuale (dei "processi culturali").
Questa sovverte il punto di vista dell’archeologia da storico a
fenomeno culturale. Gli archeologi furono tacciati di
limitarsi al ritrovamento, inquadramento storico e successiva
catalogazione, mentre l’archeologia processuale approfondirebbe, a
questo punto, tutti gli aspetti culturali e sociali, in un generale
rapporto con l’ambiente, i nodelli di insediamento e le
caratteristiche antropologiche della civiltà presa in
considerazione. Il tutto alla ricerca di una nuova archeologia di
tipo scientifico. Come capita a volte, all’archeologia
processuale è seguita l’archeologia post-processuale. La
risposta arrivò dall’Inghilterra, con un richiamo alla coerenza e
alla concretezza, della “vecchia” archeologia. Anche in Italia le
nuove teorie hanno avuto uno scarso seguito e successo.
Questi tentativi, comunque, di vedere l’archeologia e la storia in
modo diverso, hanno prodotto nell’ultimo secolo, l’archeologia
sperimentale. Molto seguita nel mondo anglosassone, essa tenta di
capire, più che l’oggetto di per sé, il modo in cui esso è stato
prodotto e utilizzato e tutti i processi sociali ad esso legati, ma
non soltanto a livello teorico, ma pratico, sperimentale, appunto.
Ne è un esempio il
viaggio della zattera Kon-Tiki, con alla guida Thor Heyerdahl, che
attraversò, nel 1947, l’oceano Pacifico, dal Sudamerica alla
Polinesia, per dimostrare la possibilità di contatti tra le diverse
culture oceaniche.
La rivoluzione tecnologica
Nella
seconda metà del secolo, anche l’archeologia è stata interessata dai
benefici della grande innovazione tecnologica registratasi. La più
grande innovazione si è avuta nel campo della datazione, grazie
all’uso del radiocarbonio. Il metodo fu messo a punto, nel 1949,
dallo
scienziato
statunitense Willard Libby. Col tempo è stato messo a punto sempre
di più. Inoltre, essendo applicabile solo nel caso di reperti
organici, ad esso sono stati affiancati numerosi metodi di datazione
applicabili su materiali diversi. Il vantaggio a livello storico è
palese. Un altro passo in avanti è stato ottenuto utilizzando la
fotografia aerea. Essa, permettendo una visione più chiara del
territorio, facilita l’individuazione di possibili siti dove scavare
con maggiore precisione. Una terza innovazione si è avuta
con l’uso del DNA in archeologia. Un esempio è la mummia
dell’ominide Ötzi,
ritrovato nel ghiacciaio del Similaun, nel 1991. L’analisi
del DNA, ad esso applicata, ha messo in luce un aplogruppo K assai
raro in Europa, ma molto più riscontrabile nell’area
mediorientale, dimostrando flussi migratori già in epoca
preistorica.
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