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Calatafimi, dagli elini di Segesta a Garibaldi

Le origini di Segesta
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     CALATAFIMI SEGESTA

        Calatafimi, oggi denominata
   Calatafimi Segesta, ha nel duplice
   nome tutta la grandezza di due periodi
   storici. Dalla magnificenza degli elimi
   di Segesta, nell’antichità, alla battaglia
   avvenuta tra Garibaldi ed i borbonici,
   tappa fondamentale del nostro
   Risorgimento.

   

    La battaglia di Calatafimi

     
     

 
   

Battaglia di Calatafimi - I Cacciatori delle Alpi a Calatafimi (15 maggio 1860)

MussoMusso
Foto da Wikimedia Commons



 I garibaldini, giunti da sud, verso le ore 10, si posizionarono, secondo gli ordini, principalmente. sul Monte Pietralunga. Giocando in difesa, cercarono di disporre truppe ai lati, che evitassero accerchiamenti, mentre l’artiglieria della compagnia Marinai Cannonieri rimase sulla strada. La compagnia dei Carabinieri Genovesi si pose sul fondovalle, in ordine sparso. Infine, vennero inviati gruppi di volontari siciliani alla ricerca del nemico. Garibaldi diede l’ordine di mimetizzarsi e non farsi vedere, e di sparare solo su suo ordine.

Anche il generale Landi, settuagenario, aveva diverse opzioni di scelta: o ritirarsi a Palermo, evitando insurrezioni alle spalle e riunirsi al grosso dell’esercito borbonico, o posizionarsi a Calatafimi e scontrarsi con Garibaldi, utilizzando la propria Brigata. Forse non credendo nella consistenza del suo avversario, scelse una terza ipotesi. Mentre sei compagnie di fanteria, e la maggior parte dell’artiglieria, si insediavano a Calatafimi, inviò altri cinque distaccamenti verso la campagna intorno al villaggio di Vita: se vi fossero stati nemici, questi ne sarebbero stati intimoriti.
I borbonici inviati furono suddivisi in tre colonne. La colonna al comando del Maggiore Sforza, fu segnalata subito dai volontari siciliani, mandati in perlustrazione. Poco dopo, i soldati borbonici raggiunsero la sommità della collina del Pianto dei Romani. Di fronte scorsero del “movimento”. Tuttavia, la maggioranza dei garibaldini erano nascosti, mentre molti altri non erano in divisa, ma in abiti civili. Il Maggiore Sforza ritenne di trovarsi di fronte a un manipolo d’insorti, alla portata delle proprie truppe.

Dopo due ore circa, Sforza decise per l’attacco. I Cacciatori Napoletani scesero a valle scontrandosi con i carabinieri di Garibaldi. La prima linea garibaldina contenne l’urto avversario, rispondendo con raffiche di fucileria e contrattaccando alla baionetta. I borbonici vennero respinti e ricacciati indietro a metà del colle. Nonostante il successo conseguito, i garibaldini impegnati nello scontro erano già in crisi.

A questo punto, secondo la leggenda, Nino Bixio ordinò di prepararsi ad una ritirata. Garibaldi intuì il rischio che la ritirata, non essendoci retrovie, potesse finire in una fuga generale dei suoi soldati. Ecco allora pronunciare le fatidiche parole: “Nino, qui si fa l'Italia o si muore!”.
Vero o falso che sia, il garibaldino Giuseppe Guerzoni, racconta che Garibaldi, visti i suoi soldati in difficoltà, si lanciò nella prima linea, ad incitare ad un nuovo assalto all’arma bianca. Anche se stanchi, dopo tre ore di combattimento, i garibaldini trovarono la forza per un nuovo attacco. La perseveranza, incredibilmente, portò ad un capovolgimento della battaglia, e, inaspettatamente, a ritirarsi furono i borbonici, che si rifugiarono a Calatafimi. Il capo di stato maggiore Sirtorisi lanciò, in quell’occasione, a recuperare Garibaldi, che rischiava (e rischiò più volte) d’essere ucciso in quel giorno.
La ritirata degli avversari era talmente incomprensibile, che Garibaldi, temendo un tranello, non diede subito l’ordine di un nuovo assalto e perse del tempo a comprendere ciò che veramente stava accadendo. Quando Garibaldi diede l’ordine, le truppe del generale Landi, stavano ormai dirigendosi verso Palermo.

 
 

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