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Il Re Ferdinando, mentre si profilava la sconfitta piemontese
nella prima guerra d’indipendenza contro gli austriaci, non stava,
di certo, con le mani in mano. Soffocò l’insurrezione napoletana e
incaricò il generale Carlo Filangieri, principe di Satriano, di fare
altrettanto con quella siciliana. Il generale, partito da Napoli il
30 agosto 1848, sbarcò a Reggio Calabria il primo settembre. Aveva
con se due reggimenti svizzeri e un battaglione da sbarco, per un
totale di circa sedicimila uomini. In più poteva contare sulle
milizie borboniche della Cittadella
di Messina, al comando del generale Pronio, e dei presidi regi
di Augusta e di Siracusa.
Sulla barricata opposta vi erano quattordicimila soldati, del tutto
raccogliticci e impreparati, senza disciplina e buone armi, ma
soprattutto mal guidati. Al rifiuto di Garibaldi di mettersi alla
testa dell’esercito siciliano, questi ripiegarono sull’esule polacco
Luigi Mieroslawski, sicuramente non dello stesso calibro del primo.
Dopo aver studiato la costa messinese, Filangieri sbarcò con le sue
truppe a Contesse, poco a sud della città di Messina, nella mattina
del 6 settembre. Dopo scontri violenti e sanguinosissimi dei soldati
contro i messinesi, la città venne accerchiata e presa la sera del 7
settembre. Mentre i borbonici prendevano senza colpo ferire Milazzo,
intanto a Messina si infieriva sulla città, ma soprattutto sui
cittadini. L’azione del generale e dei suoi soldati sui messinesi
era tale che l’ammiraglio inglese Parker e quello francese Baudin
imposero, letteralmente, al Filangieri, pena il loro intervento
militare, un armistizio fino al 29 marzo 1849.
Nell’attesa della fine dell’armistizio, il governo
siciliano, pur potendo contare su diverse opzioni, arruolò, come
professionisti,
soltanto un piccolo corpo di volontari stranieri e delle unità di
guardie nazionali, il tutto agli ordini di vecchio generale
francese, De Trobriand, ma che non fu mai impiegato in battaglia.
Il 28 febbraio 1849 fu inviato al Parlamento siciliano il
soprannominato «atto di Gaeta», redatto da Ferdinando II, dove egli
dettava le condizioni che avrebbe imposto alla Sicilia. Nonostante
qualche indulgenza, come l’amnistia dei siciliani (tranne i capi) e
una parvenza di democrazia (sarebbe stata governata da un viceré
assistito da un consiglio di ministri e da un Parlamento separato da
quello di Napoli), l’atto di per se disegnava una situazione che non
era certo quella di indipendenza e autonomia di prima. Tra la scelta
di accettare l’offerta (previa immediata e completa resa degli
insorti) o rifiutare e combattere, il Parlamento scelse
quest’ultima. |
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