Mentre il gruppo si inoltrava
verso l’interno in direzione Palermo, il generale borbonico Landi,
con tremila soldati forniti di artiglieria, prese posizione
sull’altura detta delle Piante di Romano di Calatafimi,
scegliendo il punto migliore per lo scontro militare. Raggiunta
Salemi, Giuseppe Garibaldi, il 14 maggio, assunse la carica di
dittatore della Sicilia a nome di Vittorio Emanuele II. Il giorno
successivo si scontrò, per la prima volta, con i soldati borbonici
nella battaglia di Calatafimi. Secondo la versione narrata da
Giuseppe Cesare Abba nel suo noto libro Da Quarto al Volturno,
in un momento sfavorevole della battaglia, al consiglio di Nino
Bixio di ritirarsi Garibaldi disse la famosa frase: “Bixio,
qui si fa l'Italia o si muore!”. In
realtà, il generale borbonico Francesco Landi, dopo aver
frenato le truppe, proprio nel momento in cui poteva cogliere la
vittoria, si disimpegnò dallo scontro ritirandosi inspiegabilmente.
Durante la ritirata le popolazioni siciliane assalirono le truppe
sia a Partinico che a Montelepre, giungendo a Palermo stanche dei
continui scontri subiti sulla via del capoluogo. Ciò aprì ai Mille
la strada per Palermo. La presa della città rappresentava ora il
vero problema. Si tentò la strada più semplice passando da Monreale,
ma i soldati del colonnello svizzero von Mekel, ebbero la meglio
nello scontro del 21 maggio (perse la vita nella battaglia anche il
patriota Rosolino Pilo). Il secondo tentativo avvenne dal lato di
Corleone. Nonostante l’aiuto del gruppo del La Masa, i garibaldini
non solo furono respinti, ma incalzati fino a Piana dei Greci (il 24
maggio 1860). La solida difesa di Palermo del von Mekel, sembrò
imbattibile. Occorreva un diversivo e Garibaldi lo trovò (è detta la
«diversione di Corleone»). Ordinò al piccolo gruppo dell’Orsini di
ritirarsi verso Corleone, con tutti i carri dei feriti e
dell’artiglieria. Nelle strade sterrate il gruppo creò un gran
polverone, dando al generale svizzero l’impressione di una ritirata
dei Mille. Si slanciò con le truppe al loro inseguimento verso
l’interno siciliano. Invece Garibaldi e il grosso delle sue forze,
passando per i campi di Marineo, raggiunse Misilmeri, borgo del
retroterra palermitano, verso la mezzanotte del 25 maggio. Intanto
La Masa si congiungeva con circa tremila picciotti, nascosti a
Gibilrossa, sopra Palermo (detti «cacciatori dell’Etna»). Contando
sull’accresciuto numero dei suoi uomini, Garibaldi puntò
direttamente verso Palermo. A difendere la città era rimasto il
vecchio generale Ferdinando Lanza, che non resistette molto alla
veloce avanzata garibaldina. Essi, verso le sei del mattino del 2
maggio 1860, entrarono in città attraverso il Ponte dell'Ammiraglio,
arrivando nella storica piazza della Fieravecchia, tra l’incredulità
degli stessi Palermitani. Altri scontri si ebbero tra Porta
Sant'Antonio e Porta Termini. Diversi furono i caduti tra i
garibaldini (ad esempio, l'ungherese Luigi Tüköry) e molti furono i
feriti, tra questi: Benedetto Cairoli, Stefano Canzio e lo stesso
Bixio. Dopo scoppiò l’insurrezione generale dei cittadini (tra il 27
e il 30 maggio). Il generale Lanza concentrò tutte le truppe
disponibili nella difesa del palazzo reale, mantenendo le vitali
comunicazioni col mare. Chiese diversi armistizi. L’ultimo fu
prorogato senza scadenza, per ordine dello stesso Francesco II. Si
evitò così una guerra civile tra palermitani. La situazione portò,
comunque, i borbonici ad abbandonare del tutto Palermo, bombardando
dalle navi i palazzi, quasi un’ultima vendetta.
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